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Autofinzioni

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Autofinzione: capita ormai spesso, anche in Italia, di imbattersi in questo neologismo piuttosto fumoso (neologismo per modo dire: la sua paternità, per quanto controversa, risale infatti agli anni settanta). Se il termine pare capace di intercettare pulsioni sociali e artistiche profonde, nuove configurazioni dell’universo mediatico e dell’espressione letteraria, l’uso che ne viene fatto da critici, scrittori e lettori resta decisamente vago e istintivo. Ora, se l’autofinzione designa un universo fluttuante, dai confini porosi e mobili, un mondo malleabile e manipolabile, non è una buona ragione per proiettare le (presunte) caratteristiche del significato denotato dalla parola sull’uso che della stessa si potrebbe e si dovrebbe fare. Non è forse inutile, dunque, fornire qualche piccola precisazione, e qualche opinione personale,  intorno a questa parola così spesso usata e così poco meditata.

Un po’ di storia

Il termine (autofiction) compare per la prima volta nella quarta di copertina di Fils, un romanzo di Serge Doubrovsky, scrittore francese nato nel 1928 e professore alla New York University. Né Fils né alcun altro romanzo di Doubrovsky è mai stato tradotto in italiano. I suoi primi libri, e in parte anche quelli venuti dopo, risentono pesantemente del clima letterario francese dell’epoca. Ancora nel 1977, anno di pubblicazione di Fils, la scrittura di Doubrovsky è decisamente improntata agli stilemi più frequentati dai nuovi romanzieri francesi. Anti-romanzi (come si diceva) di difficile e faticosa lettura, caparbiamente concentrati sull’elaborazione del significante e sullo smantellamento dell’impianto narrativo classico. Se non fosse per l’invenzione del termine di cui stiamo parlando (tra l’altro messa in discussione da Jerzy Kosinski, scrittore polacco-americano che l’avrebbe utilizzato una decina d’anni prima di Doubrovsky) e per la costanza con cui lo scrittore (e il professore) ha teorizzato e promosso la sua personale concezione della “nuova autobiografia”, probabilmente i libri e il nome di Doubrovsky godrebbero oggi di molta meno notorietà.

In ogni caso, nelle spiegazioni da lui fornite intorno al significato del termine (termine che in Francia diventa di dominio pubblico, vale a dire giornalistico, soltanto nei primi anni novanta) l’autore di Fils è molto distante da quello che, qui e ora, pensiamo essere l’autofinzione. La sua spiegazione si fonda su criteri sostanzialmente psicanalitici, criteri che fanno corpo con le scelte stilistiche tipiche del nouveau roman e con le principali tendenze teoriche degli anni settanta. In sintesi, dopo Freud (e dopo Lacan) non è più consentito scrivere autobiografie trasparenti, alla Rousseau. Non è concesso affidarsi innocentemente alla sincerità e alla memoria come a strumenti di accesso a una verità capace di manifestarsi indipendentemente da griglie e schemi linguistici. Scrivere un romanzo autobiografico significa, in questa prospettiva, affidarsi al potere della scrittura, lasciarsi parlare dal linguaggio, utilizzare le parole come sonde capaci di rivelare la struttura dell’inconscio (un inconscio, giustamente, “strutturato come il linguaggio”). Con il passare degli anni Doubrovsky modificherà la sua posizione e proporrà nuove definizioni, spesso aggiustandole in funzione di un dibattito che ha visto nell’ultimo decennio numerosi critici e poetologi confrontarsi con questioni teoriche decisamente impervie per i non addetti ai lavori. Un saggio di Philippe Gasparini intitolato Autofiction e pubblicato da Seuil poco più di una anno fa ha ricostruito con grande precisione tutta la querelle.
Per quanto riguarda questo breve riassunto, è sufficiente registrare la prima definizione post-freudiana del genere autofinzionale, un genere che nelle intenzioni del suo “inventore” andava inteso alla luce della ricerca psicanalitica e del valore da questa attribuito alla strutturazione narrativa e verbale dell’identità. Evidentemente già Sartre, Leiris, Perec e molti altri avevano praticato in Francia, prima di Doubrovsky, autobiografie post-freudiane. Nessuno di loro, tuttavia, si era spinto fino ad annunciare l’esistenza di un nuovo genere letterario. Vincent Colonna, narratore prima che fautore di una seconda, più curiosa, definizione, considera quella autofabulativa come una tendenza vecchia quanto la letteratura: già Dante l’avrebbe praticata, e poi Cervantes, e Borges, e insomma tutti quegli scrittori che si sono inseriti come personaggi reali nelle loro narrazioni fittizie. Per quanto suggestiva, il difetto della tesi di Colonna è quello di non rendere assolutamente conto dell’indecidibilità che colpisce ciò che siamo ormai abituati a considerare l’universo autofinzionale: spazio perfettamente ibrido dove la realtà continua ad avanzare pretese nei confronti di una finzione nascosta, allusa, suggerita ma incapace di prendere il sopravvento e di costituire una chiara cornice generica. Se nessuno potrebbe oggi mettere seriamente in discussione il carattere finzionale della Divina commedia, il termine “autofinzione” definisce al contrario proprio il disorientamento che impedisce di interpretare certi elementi del racconto come reali o come inventati. Un gioco piuttosto sadico che lo scrittore impone al lettore, e che ricorda da vicino il potere manipolatorio e persuasivo esercitato dai mezzi di comunicazione di massa.

Prometeo scatenato

L’interpretazione doubrovskiana ha trovato una sorta di evoluzione “tecnocentrica” nelle teorie del postmoderno. Svuotata del suo oltranzismo linguistico e psicanalitico, l’autofiction è diventata il terreno sperimentale entro cui il soggetto, piuttosto che lasciare emergere l’inconscio attraverso l’iniziativa di una parola “sintomatica”, può divertirsi a manipolare la propria identità, ad “auto-generarsi” sbizzarrendosi in una sorta di euforica onnipotenza creativa. In area francofona, maggiore esponente di questa visione è Regine Robin, teorica canadese e autrice di un libro intitolato “De l’autofiction au cybersoi”. Quella di Robin è una visione tutto sommato ottimistica – che la critica condivide con altri teorici del postmoderno – riguardo alle possibilità offerte all’individuo dagli strumenti tecnologici ed epistemologici tipici del capitalismo avanzato. La sua analisi dell’autofinzione muove da quelli che la studiosa considera i primi esperimenti identitari resi possibili dal web: i MOO, i primissimi ambienti virtuali, antenati dei forum, delle chat-room, e di tutto quello che ormai chiamiamo social network. Nella fiduciosa prospettiva di Robin, derealizzazione e autodeterminazione se ne vanno a braccetto per i paradisi virtuali, luoghi di pura e sublime creazione dove il nuovo Prometeo potrà (può) finalmente scoprirsi padrone del proprio destino e della propria polimorfa volontà di potenza. L’invenzione e lo sfruttamento di identità malleabili (semi-fittizie, real-fittizie) e l’abolizione di ogni rigido schematismo identitario sarebbero, secondo Robin, una ricchezza del nostro tempo e la naturale (inevitabile?) conseguenza dello sviluppo delle risorse tecniche a nostra disposizione. Personalmente sono lontano mille miglia da questa visione rosea, e probabilmente irreale, del post-human, del cyborg e di tutto quello che l’autofiction così intesa pretende di offrire, prima ancora che alla letteratura, all’esistenza dell’uomo. Questa sorta di individualismo adamitico rinato dagli impulsi elettrici dei circuiti integrati ha tutta l’aria di una grande illusione, e nessun entusiastico sostenitore della pacifica convivenza dello sviluppo tecnologico e della possibilità per l’uomo di decidere del proprio destino riuscirà a cancellare, credo, il prezzo enorme che sono costate le libertà di cui abbiamo l’aria di bearci.

Di fronte ai rischi della smaterializzazione, di fronte alla manipolazione e sofisticazione tecnica della vita (biologica, sentimentale, relazionale), se il genere dell’autofiction ha un senso diverso da quello di un’adesione passiva allo stato delle cose, questo sarà da cercarsi nella capacità dello scrittore di problematizzare (evidentemente a un livello letterario e non semplicemente teorico) l’indecidibilità di cui si diceva sopra. Soltanto un approccio critico alla questione del disorientamento (o dell’ambigua euforia) indotto dalla confusione dei livelli di realtà tipica della nostra epoca ipertecnologica potrà, a mio avviso, dare consistenza e valore a quella che altrimenti non saprebbe essere altro che una moda fra le tante.

Autofinzioni italiane

La letteratura italiana ha visto negli ultimi anni avvicendarsi diverse opere dove l’uso di una prima persona nominalmente identica a quella dell’autore non corrisponde ad un preciso soggetto empirico. J’est un autre è una divisa che appartiene a tutti gli effetti alla letteratura contemporanea: ma cos’è questo “altro” e che rapporto esiste tra lui e “io”?

In alcuni recentissimi romanzi come Accanto alla tigre di Lorenzo Pavolini o Il libro della gioia perduta di Emanuele Trevi l’io dell’autore-narratore si aliena, si allarga a comprendere altri mondi: diluisce un’identità anagrafica contingente in una più vasta e complessa dimensione storica (Pavolini) o sapienziale/metafisica (Trevi). L’identità è instabile perché consapevole delle propria finitudine: è un soggetto che si cerca, sforzandosi di riconoscere l’ipoteca fondamentale di questi grandi “altri”.

Non sono questi gli autori che prendono a tema l’irrealtà, che richiamano la nostra attenzione sulla perdita di solidità del mondo e dell’individuo. Le loro prime persone non sono soggetti consumati dall’interno, le identità vuote (e quindi potenzialmente infinite) che parlano nell’autofinzione. Persino lo statuto incerto di un libro come Gomorra nulla ha a che spartire con la frontiera dell’autofinzione, quel territorio limaccioso dove la realtà si consuma a furia di sembrare vera. Saviano sfrutta istrionicamente la letteratura e le sue possibilità immaginative per gonfiare e lanciare nel mondo un’io militante e carismatico, un soggetto mediatico certo (e Dal Lago, come chiunque altro, ha tutte le ragioni di analizzarne le modalità sociologiche e i possibili effetti collaterali), ma che scommette sul futuro nonostante tutto, e quindi crede, nonostante tutto, nella realtà, nella sua solidità.“L’interazione della verosimiglianza mimetica con l’inventività estrosa, ossia la conciliazione del massimo valore documentario con il rigoglio della visionarietà fantasiosa” come ha scritto Vittorio Spinazzola nell’ultimo numero di Tirature (a proposito di Saviano e  di molta letteratura italiana di oggi) è qualcosa che esiste da quando esiste l’arte realistica (si pensi a Balzac o a Zola) ma che non dialoga necessariamente con lo sgretolamento dei riferimenti oggettivi e con il trionfo dei simulacri: oggetto principale e privilegiato dell’autofinzione contemporanea. L’io autofinzionale è un soggetto costituzionalmente post-ideologico: corteggia il nichilismo e la vuota superficialità iconica della realtà mediatica, gioca con la propria irrealtà, e male si adatta a qualsiasi postura militante.

Decisamente più vicino al nostro genere è il Giuseppe Genna di Italia de profundis, sorta di fluviale magma cerebro-viscerale, probabilmente uno dei più grandi concentrati di pronomi di prima persona singolare della storia del romanzo italiano (se di romanzo si può parlare). Eppure, come dice il narratore: “Sono io, finalmente: io sono questo. E nell’attimo in cui lo sono, non lo riconosco”. Sfogo narcisistico ed egotico, il romanzo autobiografico di Genna sospende continuamente la credibilità dell’atto linguistico e fideistico consistente nel pronunciare (o nello scrivere) la parola “io”. Il soggetto monologante, logorroico ed ipertrofico che si espande nello spazio di qualche centinaio di pagine finisce per scoppiare come una bolla di sapone. Non sapremo mai fino a che punto, raccontandoci le sue avventure, Genna ci abbia preso in giro e abbia giocato con il nostro voyeurismo. L’Io di Genna (“Io, quello che si batte contro l’io”) sprofonda in una spirale dove la ridondanza dal sapore esistenzialista della massima appena citata pare in stretto rapporto con l’inconsistenza del soggetto che la pronuncia. Non sapere se quel Genna è Genna e subire la marea montante della sua prima persona sono effetti della medesima causa. Che certamente lo scrittore, in qualche modo, cerca di controllare, di valorizzare artisticamente, di tematizzare, ma mai, si direbbe, riuscendoci fino in fondo: vittima infelice (o forse, in fondo, felice) della cattiva infinità narcisistica che si sforza di denunciare. L’importante saggio di Christopher Lasch, La cultura nel narcisismo, aveva già previsto tutto questo nel 1979 e forse chi desideri tentare il cammino dell’autofinzione farebbe bene a leggerlo, preventivamente.
Antonio Scurati, meno impulsivo e più misurato di Genna, cerca di valorizzare, o di giustificare, il ricorso all’autofinzione attraverso una più circoscritta dimensione di critica sociale. Secondo la nota liminare de Il bambino che sognava la fine del mondo: “poiché ritiene che la vocazione della letteratura sia oggi, in un tempo dominato dalla cronaca, non già quello di confondere ulteriormente i confini tra realtà e finzione, bensì quello di superarli, l’autore invita il lettore a considerare ogni singola parola di questo libro come frutto della sua immaginazione, anche e soprattutto quando si narri di fatti riferiti a personaggi e a contesti che portano il nome di persone o istituzioni realmente esistenti”. Chiederemmo volentieri a Scurati di spiegarci la differenza tra “confondere” i confini e “superarli” perché davvero non riusciamo a farcene un’idea. La lettura del suo libro non viene in nostro soccorso: mentre sviluppa alcuni interessanti spunti di riflessione intorno ai meccanismi della derealizzazione e della mistificazione massmediatica, Scurati insiste su un registro sensazionalistico ed enfatico caricando la storia di una postmoderna caccia alle streghe (i pedofili) di cupe tinte spettrali ed immaginari additivi musicali. Con il risultato di apparire molto meno inquietante e penetrante di, per esempio, un lavoro sullo stesso tema ma decisamente più sobrio e distaccato come il notevolissimo documentario di Andrew Jarecki intitolato Una storia americana.

Accanto alla prosopopea della messa in scena, allo sfruttamento di effetti che rimandano a quella stessa massmediatica “confusione dei confini” che la letteratura vorrebbe superare, la presenza della prima persona finta/vera del narratore A. Scurati fatica a trovare un titolo di legittimità. Perché lo scrittore ha utilizzato la propria identità anagrafica? Dove produce senso la confusione delle piste, l’egotismo pseudoautobiografico? Non c’è anche qua (ma molto meno travagliato e sofferto di quello di Genna) un ripiegamento passivamente narcisistico? E non finisce in cronaca, in pettegolo chiacchiericcio, anche la storia dell’identità personale, oltre a quella dell’identità collettiva?

Scurati ha giustamente posto il problema dell’autofinzione in termini sociologico-antropologici, collocando la propria finta autobiografia nel quadro di un più ampio discorso sui modi della comunicazione e della rappresentazione mediatica. Non pare tuttavia che abbia trovato gli strumenti (letterari) per risolverlo.

L’individualità come spot

Chi certamente li ha trovati, chi ha insistentemente attraversato le zone più buie e sensibili della contemporaneità per cavarne un bene letterario di indubbio valore, questi – ed è opinione ormai quasi unanime fra critici e lettori – è Walter Siti.

La sua opera tutta, da Scuola di nudo al Contagio (e probabilmente anche il nuovo Autopsia dell’ossessione, la cui uscita è prevista per il prossimo autunno), costituisce una riflessione imprescindibile sul valore etico e politico dell’io “al tempo della fine dell’esperienza e dell’individualità come spot” (come recita l’Avvertenza di Troppi paradisi). L’Occidente di Siti è una comunità di soggetti svuotati d’identità, telemorfizzati e orfani di senso. Walter è “come tutti” (“Mi chiamo Walter Siti, come tutti” è l’incipit di Troppi paradisi) perché tutti sono abbagliati da un bisogno di trascendenza evaso nel riflesso dei simulacri, e perché tutti sono ossessionati dalla propria unicità. L’esibizionismo autobiografico che domina nei suoi libri è strettamente, tematicamente, legato al voyeurismo diffuso che modella le interazioni sociali e i modi della comunicazione contemporanea. Perciò l’immagine tecnica (televisiva, fotografica) occupa un posto così importante nell’universo romanzesco di Siti. Nella sua opera disponiamo di una straordinaria testimonianza poetica capace di integrare le riflessioni degli studiosi del narcisismo sociale con quelle dei teorici dell’immagine come surrogato e simulacro. Siti, attraverso l’ambigua parola del suo io real-fittizio, esegue un ritratto assolutamente convincente dell’uomo contemporaneo: un miscuglio di hi-tech e di primitivismo, di regressione pulsionale e di manipolazione tecnologica, di credulità permanente e di mancanza di fiducia, di smania confessionale e d’instabilità psicologica.

Le contraddizioni sono assunte da questo scrittore con piena, drammatica consapevolezza. Siti è l’unico autore italiano (e forse non soltanto italiano) di autofinzioni capace di incarnare compiutamente il modello descritto da Vittorio Giacopini nell’ultimo numero dello Straniero: “Se la ‘molla’ dell’arte è il narcisismo – ha scritto Giacopini – l’artista deve farsi critico di se stesso e ogni opera consapevole deve contenere dentro di sé i criteri dialettici della sua contestazione ragionevole”. Possiamo discutere sul senso di quel (forse troppo positivistico) “ragionevole” ma è indubbio che Siti riesce laddove quasi tutti falliscono: respirare, senza lasciarsene soffocare, l’aria che ci circonda – fare dell’irrealtà (di cui il narcisismo non è altro se non il correlato soggettivo) l’oggetto e lo strumento di un realismo che sia veramente al passo con i nostri tempi.


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